La situazione fra Monica e Guido stava diventando intollerabile, cosicché
si decise per una breve psicoterapia di coppia al consultorio di quartiere.
Il dottor Luigi Tempestini, stava attraversando una crisi profonda. Lo stimato analista adleriano, fisioterapista della Scuola Sumo, ipnotista, illusionista, collezionista di fumetti e ammiratore di Maga Magò, si era fatto espellere dalla Società di Psicanalisi ed aveva fatto domanda d’ammissione al Club di Topolino. Non era più in grado di controllarsi: ormai proiettava i suoi problemi sui pazienti. Così il primo problema proiettato su tutti erano state le parcelle… raddoppiate in sei mesi. Un colpo da maestro, a carico della pubblica sanità. Da un anno aveva moltiplicato incassi e sensi di colpa. Certo che era riuscito a comprarsi una casa in Sardegna ma non, come avrebbe voluto, una villa sontuosa con porticciolo e spiaggia privata. La giovane assistente annunciò l’arrivo dei pazienti, che di pazienza non n’avevano più. “Buongiorno dottore”, sussurrò Guido, intimorito, producendosi nel solito antiestetico tic, un movimento della testa a scatti, un po’ a destra, un po’ a sinistra. “Io sono Monica”, disse la ragazza, esibendo un sorriso felino, uno sguardo magnetico e una minigonna da far paura, seppur le gambe fossero celate da una sovrapposizione di calze trasparenti e calzettoni di cotone a righe iridescenti. “Salve”, rispose Tempestini, senza alzare gli occhi dai suoi appunti. “Restare in piedi, prego, svuotare le tasche e non oltrepassare la riga gialla davanti alla scrivania!”, proseguì artico, per far sentire gli ospiti a proprio disagio. “Nome, cognome, data di nascita, stato civile, indirizzo, codice postale, codice fiscale, bancomat, conto corrente, carte di credito, di debito, telefoniche e malattie infettive…” “Ma io e Guido abitiamo insieme da sette anni, non abbiamo niente da nasconderci!” sbottò Monica. “Questo lo dice lei,” riprese il medico, “in una convivenza prolungata la menzogna può diventare abitudine.” “Il dottore ha ragione Monica, sospetto che tu mi nascondi qualcosa.” “Che stronzo, sai persino quando mi ossigeno i peli del pube!” “Sì, ma delle tue malattie infettive non mi hai mai parlato.” “Continuate, continuate…” disse Tempestini, “non voglio interrompervi… per le impronte digitali e le foto segnaletiche facciamo dopo.” “Oh, non siamo mica delinquenti!”, risbottò la ragazza. “Non ho detto questo, ma durante le sedute può succedere che si litighi un po’ e ci scappi il morto. Io mi porto avanti col lavoro perché detesto avere la polizia in casa. Continuate… mentre cerco il numero di telefono dell’ambulanza… dov’è?! L’avevo messo qui…” Con queste trovate dadaiste Luigi Tempestini, per gli amici Torci Encefali, sapeva movimentare ogni seduta. Non era un propugnatore del metodo parliamone serenamente, preferiva la strategia: inchioda il super io alla sua croce. Niente razionalità ma una bella logica surreale, tutta chiodi e spine. “Signor Peyron, lei ama la sua compagna?” “Sì, dottore, ma sono tre mesi che non facciamo l’amore.” “Palle, io l’ho fatto un casino di volte.” “Non con me, Monica.” “Ma non puoi negare che ti racconto sempre tutto. Ti ho spiegato mille volte come mandare fuori una donna. Tu non ti applichi, non prendi appunti!” “Dottore, a me non importa che vada a studiare fuori casa, mi dà fastidio che si porti a letto i compiti.” “Ehi pivello, quando ci siamo messi insieme avevi detto che avresti imparato ad amarmi.” “Io volevo, ma tu pretendevi che ti pagassi le ripetizioni.” “Sei tu che rifiuti di venire a vedere le lezioni dal vivo! Dottore, sto sfigato spende più di trecentomila lire al mese per le insegnanti di colore!” “E’ un artista, frequenta l’accademia?” chiese Tempestini. “No, la tangenziale, dottore.” “Capita nella migliori famiglie, nessun problema, cara.” “Lo dice lei! Se i soldi li desse a me avrebbe fatto dei veri progressi, senza contare che resterebbero in casa. Stiamo andando in malora, non riesco ad arrivare alla fine del mese, e dire che mi compro sì e no dieci capi firmati, due paia di scarpe e tre profumi.” “Dottore, quando fa la spendacciona mi eccita un casino.” “Le sciupa la libido?” ”Sì.” “Se è per questo… anche la sua minchioneria mi fa arrapare”, precisò la ragazza. Si abbracciarono teneramente addormentandosi, l’una sulla spalla dell’altro. Tempestini li aveva stesi. Si sentiva un dio, padroneggiava perfettamente la situazione. Era, come dire, una soddisfazione d’atmosfera: luce soffusa, mobili scuri di legno massiccio, l’antica pendola, il suo completo di tweed freudiano e la pipa di radica, metafora del suo orgoglio penis. Peyron accusava un look ordinario, giacchetta stile bancario unto, appena uscito dalla mensa. Tempestini notò una dissonanza: il papillon a rombetti colorati. Orrore! A guardar meglio non erano rombi ma minuscoli ananassi gialli, con le figliolette verde persiana di montagna! Avrebbe potuto godersi la catalessi dei pazienti fino al termine della seduta, ma gli ananassi lo fecero andar in bestia. “Sveglia! Sveglia! Un po’ di presenza!” “Ci scusi dottore”, disse Monica, “siamo stanchissimi, Guido lavora un casino in ospedale, lava dai dieci ai venti chilometri di pavimenti ogni giorno.” “Iperlavorare non fa rima con amore carnale." "Come no?!" disse Guido. "Fra iperlavorare e carnale c'è solo una consonanza... are - ale, capito?! Ma perché non le riesce?” “Sono fuori allenamento”, bofonchiò Guido, “non posso forzare la sollevazione!” “E’ logico”, disse Tempestini, “neppure Lenin avrebbe fatto la rivoluzione se il popolo non avesse collaborato.” “Il popolo in che senso?” chiese Monica. “I coglioni, no! Bisogna aspettare il momento giusto, ecco tutto.” “Già, ma quando Guido vorrebbe, perché è tranquillo e di buon umore, metti quando vado dai miei per un paio di giorni, io non ci sono.” “E’ vero, dottore, lei non c’è, e se ci avanza un po’ di tempo, devo fare i lavori di casa.” “E’ faticosissimo, sa?” disse Monica. “Io mi stanco troppo a guardarlo mentre fa il bucato, toglie la polvere, rifà il letto…” “Povera stella, è comprensiva, non insiste, anche se vorrebbe tanto.” “Lo guardi, dottore. Egli è così magro, debole, fragile: potrei distruggerlo pretendendo troppo da lui?!” “E’ un po’ deperito”, concluse Tempestini. “Dica pure… smidollato, dottore.” “Smettila, non rimproverarmi davanti a tutti. Lo sai che se fai la serpe inizio a provocarti, mi metto a ruttare, a cantare l’Internazionale e faccio il pugno chiuso.” Tempestini temette il peggio: “No, che non sta bene, così, in pubblico!” “Smettila, non ho voglia di litigare”, puntualizzò Monica. Guido divenne triste e fu colto da una crisi di tic isterici. Ripetuti scatti della testa, un po’ a destra, un po’ a sinistra. Infine s’infilò un mignolo nell’orecchio, iniziando a scavare a fondo, turbato: “Non mi ami più, non vuoi neanche bisticciare!” “Va bene, a casa ti tagliuzzerò con la lametta da barba…” “Ah, il solito caso di sado-masochismo.” “Ma che ha capito, dottore?! Gli tagliuzzo i fumetti di Dylan Dog. Quando si chiude così… mi fa venire mal di pancia”, disse Monica. “Si chiude in se?” chiese Tempestini. “Si chiude al cesso e ci sta ore a leggere quelle porcherie.” “Definirle porcherie mi pare avventato, i giornalini della Bonelli sono vere opere d’arte!” disse Tempestini, noto collezionista di fumetti d’ogni genere. “Lo senti il dottor professore? Non puoi distruggermi i Dylan Dog, perversa!” “Ha ragione, cara ragazza…” “Allora ti lego e ti costringo a rivedere per tre giorni la registrazione dei comici di Zelig!” “Sei pazza, vuoi uccidermi!” “Signorina, non faccia scherzi pericolosi, è in gioco la salute mentale del suo compagno!” "Ma gli autori e i comici di quella trasmissione dicono d’essere tutti di sinistra...", sussurrò lei, fremendo sui dossi pelvici. “Ma mi faccia il piacere, questo non è sadismo, è marxismo cretinismo”, commentò seccamente lo strizza cervelli, distratto da un sinuoso, apparentemente involontario, ma ben calcolato, accavallamento di gambe di Monica. La solita tecnica che sempre funzionava. La gonna della ragazza era scivolata lentamente sino all’inguine, scoprendo le calze autoreggenti e un bel cuneo di carne. Tempestini capì di non capirci niente di psicanalisi e non c’era corsi d’aggiornamento o congressi che potessero colmare la lacuna. L’erezione che stava subendo era forse un fenomeno di transfert fulminante? “Signor Peyron, se vogliamo pervenire ad un risultato, vista l’inimicizia fra voi, sarebbe consigliabile procedere per qualche tempo a sedute individuali.” “E quando iniziamo”, chiese, interessata, Monica. “Subito. Signor Peyron, vada a farsi un giro, torni fra un’ora. Dato il caso disperato non terrò conto dei primi venti minuti e riprenderemo da capo, io e la sua amica.” “Allora vado, dottore?! Ma stia attento, che è crudele. Non è che me la scopa alla prima seduta?!" “Vada, vada e non tema. Inizieremo ad esplorare questa spietata crudità, abbia fiducia nella scienza.” “Vado?” ”E vai, se ti dice di andare, vai, no?!” urlò Monica. Guido uscì rasserenato dall’ambulatorio, mentre Tempestini pregava la sua assistente di non disturbarlo per nulla al mondo. “Cara signorina…” “Mi dia della Monica, prego.” “Certo, posso darle del tu?” “Sì, mi dia pure del tu, anzi… dammelo, dammelo!” Un corteggiamento durato secondi. “Non ti senti in colpa?” chiese Tempestini, soffocato da un palmo di lingua in gola. “Sì, se non ti sbrighi a spogliarmi. Io sono terribilmente perfida, ingorda, dissoluta, disordinata!” “Oh, Monica, non posso farlo, io sono terribilmente buono, morigerato, responsabile, ordinato…” “Devi proprio piegarli i pantaloni?” “Sì, perché sono pessimo.” “Sì, siamo pessimi e riprovevoli…” “Sì, riprovevoli, schifosi, abietti, luridi, inattendibili, bugiardi!” “Sì, siamo azzurri!” “In che senso, Monica?” “Bugiardi, ambigui, ladri, imbroglioni, azzurri e tricolori!” “Il liberista che è in me vuole trafugarti il più profondo godimento!” “Eh dai, penetrami l’anima con le tue sleali carte di credito da scimmione adleriano. Puniscimi, arricchiscimi, perché da bambina cavavo gli occhi alle bambole delle mie amichette!” “T’impaurivano gli occhi delle bambole?” “No, mi eccitavano gli occhi delle bambine cha piangevano disperate!” ”Dai pensieri cattivi e da quelli troppo buoni…” “Nascono le cattive azioni.” “Accarezzami, sodomizzami… ahi!!” “Ti ho penetrata con troppa violenza?” “No, mi hai accarezzata con eccessiva dolcezza!” “Bene, sapevo di farti male.” “Le cattiverie nascono dentro di noi come guastatori.” “Sì, uno, dieci, cento, mille soprusi: un armata di marine pronta a distruggere ogni buon sentimento.” “Occupami, invadimi, bruciami, fai di me il tuo Irak! Tempestini… tempestami di tradimento, dirò tutto a Guido e lui soffrirà, in silenzio, poi scoppierà come un uomo bomba!” “Altro che Irak, tu sarai la mia Hiroshima, il mio io non si accontenta, gode, gode, gode!” “Oh, sì, così così! Dammi e prendi, prendi e dammi, bombardami!” “Ti trivello come un pozzo di petrolio! Entro ed esco, esco ed entro, sei un fiore, un fiore del male!” “Baudelairiano represso! Tu conosci l’arte dell’inquietudine, dell’ipocrisia, della provocazione, del plagio…” “Della calunnia, dell’ostracismo, del consumismo, dell’arrivismo, della superbia, della delazione!” “Aaaah, sì! Mi fa impazzire il tuo lobbismo, la tua pancia flaccida, i tuoi muscoli mollicci, il tuo viscidume…” A questo punto il lettino in pelle marrone, trapuntata con bottoni foderati in puro stile viennese con influenze jiddish, proveniente dallo studio di un freudiano ortodosso, s’indignò, ribellandosi alla veemenza del peccato. Un piedino si ruppe, i trogolatori avvinghiati nella posizione della tigre bianca: la donna in ginocchio posa il volto sul letto, mentre l’uomo, dietro di lei, le stringe la vita con entrambe le mani e la bacia, lì, per poi penetrarla. Il dottor Tempestini perse gli occhiali ma non smise di baciarla: “Monica, Monica, quanto sei pelosa!” “Guarda che stai leccando la moquette!...” “Dottore, dottore!” urlò dall’interfono la voce dell’assistente, “non sono riuscita a trattenere il signor Peyron, sta per entrare nello studio!” Studio fu l’ultima parola prima della catastrofe. “Monica!! Come hai potuto farmi anche questa, cioè… farti anche questo?!” La donna non si scompose. Era nuda, ma aveva infilato in fretta e furia la giacca dell’analista. Inforcati i suoi occhiali, si era seduta dietro alla scrivania. Guardò Guido con atteggiamento professionale, fumando la pipa, spenta. Tempestini si era sdraiato sul divano azzoppato, coprendosi con un plaid recuperato per pura fortuna in un armadio. I capelli arruffati, lo sguardo terrorizzato: “E lei, dottore, non si vergogna?! Ma si guardi, cosa fa lì, conciato come un cencio?” “La seduta non è ancora terminata…” osò Tempestini, nel tentativo di recuperare una credibilità impossibile. “Monica, tu mi hai di nuovo tradito col primo venuto!” “Calunnie, non hai le prove che sia venuto!”, esclamò Monica indignata, tirando con grazia tutta femminile una lunga boccata di non fumo dalla pipa spenta. ”Lo intuisco, me lo sento…” “Ma Ciccio, cosa dici?! Le apparenze ingannano. Questo è il nuovo metodo transazionale della Scuola di Varsavia!” “Certo, la sua compagna dice la verità”, riprese sollevato Tempestini, “ci si scambiano i ruoli… in tal modo analista e paziente possono entrare più a fondo l’uno nell’altra!” “Entrare e uscire…vero?”, ironizzò Guido, con una lacrima pronta a scendergli dalla gota destra. “Voglio credervi, ma perché siete nudi?” Silenzio. Guido insistette: “Dove sono le carte?!” “Che carte, Ciccio?” disse Monica, sconcertata. “Scommetto che stavate giocando a poker streap!” “Stupidino, lo sai che detesto i giochi d’azzardo. Siamo nudi perché… perché non è possibile restare vestiti mentre ci si scambiano gli abiti”, concluse la ragazza. Geniale. “Capisce signor Peyron? Lei è entrato sul più bello.” Questo era vero. “Me lo giuri che stavate solo scambiandovi i vestiti?” “Certo.” “Giuramelo sulla cosa che hai di più cara la mondo!” “Te lo giuro, te lo giuro… su… su… Pippo!” “Me lo giuri su Pippo?” “Sì, su Pippo, su Pippo, va bene?” “Allora ti credo. Ma chi è Pippo?” “Chi è Pippo?” ripeté incuriosito Tempestini. “Pippo è Pippo, e basta!” strepitò Monica, infastidita. “Monica…” riprese il Peyron, “andiamocene, non dobbiamo nessuna spiegazione a questo inetto. Non possiamo affidare le nostre nevrosi, disturbi psichici seri, straordinari, invidiabili, ad un curioso incompetente.” “Monica, che cosa significa per lei Pippo?!” chiese l’analista, preso da una gelosia irrefrenabile. “Pippo, dovrebbe essere il diminutivo di Filippo, che ha in Filippino il proprio vezzeggiativo. Potrei anche chiamarlo Puccio, ma non Pinuccio, Pino, Peppe o Beppe che deriverebbero da Giuseppe. Neppure mi andrebbe di chiamarlo Uccio. Sarebbe inesatto, potrebbe confondersi con derivazioni d’altri nomi, che ne so… Ferruccio!” “Cosa c’entra Uccio, adesso! Non puoi metterti a parlare anche di Uccio, che è l’altro nostro fidanzato, cioè tuo…” “Basta, non può aggirare le domande. Sarò più diretto: lei lo ama, Pippo?” “Andiamoci piano, Tempestini, amore è una parola grossa, diciamo che lo stima”, tese a precisare Guido. “E’ vero”, singhiozzò Monica, “mi piace, è sensuale, caldo, morbido, rassicurante, sempre presente, ecco.” “Ecco, lei lo desidera!”, si scatenò l’analista, imbestialito. Si alzò dal divano, stentando a mantenere coperte le nudità con quel plaid striminzito. “Lei lo ama, confessi!” “Monica, andiamo, rivestiti, questo pazzo vorrebbe curarci indagando cose che non lo riguardano.” “Tu lo desideri!” insisteva Tempestini, “tu brami il Pippo!” proruppe impetuoso, con un singulto, liberandosi della copertina con un ampio gesto delle braccia, abilmente imitando un torero nell’arena alle cinque della sera. ”Monica, come ti permette di darti del tu? E perché ha il pisello marmoreo? E soprattutto come fa a sapere che sei quello che dice?” “Lo sa eccome, perché un attimo fa sosteneva d’amare solo me. Giurava che sarebbe tornata due volte la settimana, per farmi biri biri.” “Biri biri?... dove?” chiese Guido. “Dove mi pare, stronzo, impotente, che consegni la tua bambina nelle mani dell’orco seviziatore e poi ti stupisci se è costretta a tradirti per non farsi strangolare!” “Traditrice, tu vai a letto con Pippo!” gridò Tempestini, avventandosi su Monica pronto a strozzarla. “Si fermi, dottore, la ragazza mente! Non va a letto con Pippo, ma con tutti gli altri sì.” “Signor Peyron, conserviamo la calma, la inchioderemo alle sue responsabilità di ninfomane. Da quanto tempo dura questa storia con Pippo? Rispondi!” “Da venti anni. Lo portò a casa papà una sera di Natale.” “Vecchio porco, l’amico di tuo padre ti ha rovinata!” “Povera Monica, non me lo hai mai detto. Quanti anni avevi?” chiese comprensivo Guido. “Sei.” “Quando siete rimasti soli ha iniziato a toccarti, vero?” “No, l’ho toccato io e gli ho dato tanti bacini sul pancino.” “Porco! E lui ne ha approfittato per ficcarti le zampacce sotto la gonnellina?!” “No, ragazzi, vi sbagliate. Sono stata io a sdraiarmi sul divano e a prendermelo tra le gambe. Era morbido. Dopo mi sono addormentata, cantandogli una canzoncina. La volete sentire?” I due uomini, annichiliti, accennarono un sì con i capoccioni allentati. “Pippo, Pippo, ti succhio il nasino, ti mordo le orecchie, ti bacio il pancino ed anche il piedino. Sei bello, sei dolce, sei tanto grassoccio, ti tolgo i calzoni ed anche il panciotto, che ghiotto fagotto è il mio… orsacchiotto. Pippo è un pupazzo, pupazzoni miei!” disse la ragazza, esibendo un sorriso sleale e uno sguardo irresistibile. “Ma stai parlando di quel vecchio orso di peluche che ti porti a letto ogni sera?” chiese Guido. “Certo, il mio Pippo…” Monica si rimise perizoma e reggiseno, si infilò le calze trasparenti e sopra i calzettoni di cotone a righe iridescenti. La minigonna da far paura tornò al suo posto. L’assurdo aveva colpito ancora. |
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